Cader con le prime castagne

Cader con le prime castagne

racconto di Damiano Fustinoni

È una macchina fotografica vecchia. Era lì, tra tante cianfrusaglie, su un banchetto che la domenica riempie la piazza di vecchi ricordi. “Ha fatto la guerra” mi disse il venditore mentre le mie dita si sporcavano di polvere riconsegnando alla lucentezza le parti in metallo. “Ha fatto la guerra…” pensavo “forse, più che averla fatta, l’ha vista, l’ha fermata, l’ha archiviata come cicatrice che rimane. A vita, alla vita.”

Nei giorni di festa il bosco si riempie di colori. Ora che la pista ciclabile attraversa la natura c’è un via vai di persone, di biciclette, di passeggini che rompono la quiete e segnano il paesaggio. I bimbi e i vecchi osano pure uscire dallo sterrato per calpestare le foglie, per cercare avventure i primi e ricordi i secondi. Il bosco accoglie e raccoglie le storie, lasciandosi penetrare ed attraversare. Movimento è vita. E’ un gioco del cercare e inseguire. L’animale cerca tranquillità, i bambini seguono i rumori, i genitori inseguono i bambini, i nonni telefonano ai genitori per sapere quando rientreranno a trovarli. E’ una danza. In mezzo a questo girovagare c’è invece un treno, una donna, anziana, forse una nonna, che dal dopoguerra segue sempre lo stesso percorso. Come un aratro, ella segna un solco, muove la terra, la prepara, indica un tracciato, una direzione, un collegamento. Non ci sono anse nel suo andare, non ha ritmi variabili. Il suo cammino non sembra trovar piacere nel viaggio, ma è attesa di arrivo. Ogni passo è il cadere di una goccia nel serbatoio del piacere, completo, pieno al solo raggiungimento della meta. Ella sgrana ogni giorno il suo rosario di passi.

Non ho resistito. L’ho comprata. Mi piace l’idea che le mie fotografie possano venir scattate con una macchina che ha iniziato a raccogliere frammenti del mondo, di persone e di storie ancor prima che io nascessi. Click. Ho provato a far una fotografia al bosco, in un giorno di festa. Volevo fermar il tempo. C’erano delle persone, dei punti colorati dispersi qua e là, e un solco preciso. Della donna anziana soltanto la traccia. Una linea retta. Un legame tra il paese e il monumento in mezzo al bosco. Ogni giorno due viaggi. Dal 1945. Venticinquemila strade avanti, venticinquemila strade indietro. La casualità si è fermata di fronte al fotografare, si è messa in posa. La signora no. Avanti e indietro. Nemmeno lo scatto è in grado di fermare questa tessitura.

“Tra poco pioverà. Il tempo non è stato clemente, non ha voluto favorire la camminata al monumento dei caduti nei nostri boschi”. E’ tempo di semina. Una schiena è piegata, un bastone muove la terra, una mano sistema, spezza i grumi più grossi. E’ la signora anziana a curare l’aiuola del monumento. E’ preoccupata per la pioggia. Ma non perché non ha l’ombrello e il temporale accompagnerà i suoi passi di ritorno. “Mi mangeranno tutti i fiori. Con questa pioggia verran fuori tutti i lumacotti.” confidava un po’ sconsolata. Attorno a lei ci sono persone che raccontano una storia. Quella del 26-27 settembre del 1944. Storia di giovani, storia di disfatta, storia di morte, storia di crimini, storia di fuga. Storia di libertà. La memoria passa attraverso il racconto. La memoria passa attraverso una schiena piegata e la preoccupazione e consapevolezza che ci vuole cura per fare memoria.

“Hanno anticipato. Tutto si compirà stanotte. Domani ci riabbracceremo.”. Il giovane padre bacia la piccola e la moglie, esce, ma non chiude dietro a sé la porta alla speranza di riabbracciarli l’indomani. Alimenta i pensieri di desideri: “Sarà una lunga notte. L’assalto a Villa Masnada e poi la fuga col camion carico di armi, vestiti e munizioni. E poi il ritorno dal bosco.”. “Ninna nanna, dormi figlia mia. Dormi e sogna anche per me, mentre attenderò il ritorno di papà. Sarà lui a svegliarti domattina. Ti porterà un po’ di libertà. Avrà l’odore del pane appena sfornato. Avrà il calore del fuoco nelle notti d’inverno. Avrà la melodia degli uccellini del bosco. Potrai rimaner bimba, ancora qualche anno. Sogna, piccola mia. Sogna di nasconderti, correre e giocare nel bosco dove, alle prime luci del mattino, tuo papà farà ritorno a casa. Se lo incontri, accompagnalo e stagli vicino. Domattina arriverà.”. Ma quella notte fa freddo. Non si può dormire. Si deve vegliare. Pancia a terra e fissar la villa. Il freddo è penetrato nelle ossa. Cinque ore fermi, la notte, l’umidità. Non c’è tempo. Han dato il segnale. L’assalto. “Perché siam qui? Ah già il camion.” Sì. Il camion. Il camion? Il camion! Ma… Il camion non c’è. “Dov’è il camion? Cercate! Munizioni, vestiti, armi! Va bene. E poi il camion”. Rubare il camion, sì perché servirà. Ma… Servirà, sì, ma serve. Anche. Cioè il camion era la nostra fuga. Praticamente la fuga fugge. Non c’è più. Non si trova. E lascia soli. Soli… Magari soli. Lascia solamente alle gambe la speranza di mettere passi, distanza e libertà tra i partigiani, appesantiti dalle armi, i fascisti e i tedeschi. “Dov’è il mezzo? Calma, il comandante lo troverà. L’ordine è di raccogliere tutto quanto possa servire per le prossime azioni di guerra. Ecco, una macchina fotografica. Testimoniare, lasciare traccia, ricordo. Documentare. Questa sì, può servire. La prendo.”. Click. Una fotografia. La memoria è un attimo uscito dallo scorrere del tempo. Lasciare una foto, significa consegnare un momento vissuto, un frammento di storia. Non ci dovrà essere più notte lontano dai bimbi. “Corriamo, scappiamo. Vieni da questa parte. Siamo accerchiati, fuggi. Fatti guidare dal ricordo. Questi sono i nostri boschi. Li conosciamo. Abbiamo questo unico vantaggio. Questa è casa nostra e non ci può tradire. Taglia su da quel sentiero, quello che porta a quel castagno, il primo a maturare. Guarda son già cadute le prime. Ne prendo una da portar a casa. Te lo prometto, torneremo nei prossimi giorni a far castagne. Ho voglia di sentirle scoppiar sul fuoco. Non possiam morir qui. Quest’anno tocca a te fare il vin brulé.”. I partigiani si fermano per riposare. Le foglie cadute si fanno letto e il bosco, quel bosco vicino a casa, si fa per una volta nido. Si addormentano. Un sonno senza sogni. Vengono svegliati dalle campane e dalla sirena del gres che manda gli operai a casa per il riposo. Per loro, invece, riprende la fuga e la paura. “Si salvi chi può!”. L’ordine che non vorresti mai che abbia la voce del tuo comandante. E’ l’ammissione della disfatta, del non saper come condurre i propri soldati a casa. Si salvi chi può. Ognuno il suo passo, la sua direzione, la sua voglia di casa così come ognuno ha il suo nome. Sì, passi e percorsi che hanno il ritmo dei nomi: don Antonio Milesi “Dami”, “Sandro” Giovanni Leardini, Tito Spini, Vittorio Bonalumi “Rino”, Marino Bonalumi, Valentino Roncalli ”Tino”, Ettore Arrigoni, Luigi Benaglia “Magno”, Albino Locatelli, Mario Capelli, Giuseppe Signori, Tranquillo Milesi, Abramo Recchia “Balilla”, Carlo Mazzola, Giovanni Mazzola, Giovanni Frana, Francesco Roncelli, Virgilio Bonademi, Luciano Tironi, Arturo Mostosi, Tarcisio Rota, Angelo Gotti, Valentino Rosani, Franco Fumagalli. Ventiquattro uomini. Ventiquattro storie lì nei nostri boschi. Ventiquattro percorsi diversi che volevano raggiungere tutti un’unica vetta: la libertà, non solo per se stessi, non solo per gli altri ventitre, ma per tutta l’Italia. I nomi, l’elenco viene spezzato dai primi spari. Qualcuno cade, proprio come le castagne mature. Ma della castagna non hanno né il compimento, né la protezione del riccio. “Devo arrivare a casa. Voglio tornare dalle mie donne che si saranno svegliate e saranno in pensiero per me. E poi ho una foto da consegnare.”

“Fermatevi! Cosa ci facevate nel bosco?”. “Facevamo castagne, ma a quanto pare è ancora presto. Il bosco non è ancora in grado di saziar la fame di questa guerra”. “Voi siete affaticati. Voi non avete camminato nel bosco, ma fuggivate. Voi non cercavate, ma venivate cercati. Quella macchina fotografica ne è la prova. Quella, stanotte, era a Villa Masnada. Arrestateli! Li giustizieremo tra qualche ora in paese.”

“Cosa sorride? Perché sorride quel bastardo? Puntate quei fucili voi! Che cazzo sorridi? Ora te lo faccio saltare quel sorriso da coglione.” Dietro al plotone, sull’angolo di quella casa, c’è una bimba. Assiste a tutto. Un martire l’ha vista e le sorride. “Non aver paura”, sembra dirle, “non possono uccidere quello per cui ho lottato, quello che mi tiene in vita, quello che volevo dare in mano alla mia bimba stamattina, quello che ha l’odore del pane appena sfornato.”. Click. C’è un grilletto che interrompe per sempre il tempo. C’è un grilletto che ferma un attimo e lo consegna al fluire del tempo.

La memoria oggi sono due fotografie. E’ un martire che guarda una bimba. E’ una signora anziana che ara la terra. E sorridono. C’è una vita e una storia che le unisce, nel tempo. A commuoversi oggi è il cielo. Goccia a goccia. Ci lava dalle guerre e disseta questa lotta di libertà.

 

Testo pubblicato sulla rivista ISREC di Bergamo “Studi e ricerche di storia contemporanea” n.82, dicembre 2014.